Introduzione
Introduction
Rita Cerutti
Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Sapienza Università di Roma


Questo numero monografico di Infanzia e Adolescenza è dedicato al Nonsuicidal Self-Injury (NSSI) ovvero all’Autolesività Non Suicidaria (ANS). L’interesse per tale comportamento nasce dalla sua ormai conclamata diffusione, in particolare durante l’adolescenza e l’età giovane adulta, soprattutto sotto forme di autoferimento superficiali/moderate, a bassa letalità, che causano un danno al tessuto corporeo. Si tratta di un fenomeno che sta ottenendo molta visibilità anche attraverso i nuovi media (Whitlock, Lader e Conterio, 2007). Fino a circa venti anni fa, i comportamenti autolesivi non suicidari, infatti, erano per lo più sconosciuti, scarsamente esibiti ed effettuati riservatamente, in privato. Oggi, viceversa, il loro progressivo aumento nei paesi occidentali ha di fatto reso tali manifestazioni un problema di salute pubblica che richiede un serio tentativo di comprensione onde effettuare interventi efficaci e mirati. Ed invero, le particolari caratteristiche dell’adolescenza fanno sì che questo periodo dello sviluppo si configuri come maggiormente a rischio di comportamenti autolesivi non suicidari e suicidari (Nock e Pristein, 2005).
Un aspetto centrale, e attualmente oggetto di un intenso dibattito, riguarda l’inquadramento nosografico di tali comportamenti. Nello specifico, la trattazione dell’ANS come nuova possibile diagnosi psichiatrica (APA, 2013) richiederebbe certamente molto di più rispetto alle poche righe di un’introduzione. In questa sede, ci si limita a considerare che, in una prospettiva storica, la proposta di una diagnosi a sé stante rappresenta la fase finale dell’evoluzione culturale volta alla comprensione e all’accettazione di tale comportamento come entità clinica autonoma (Muehlenkamp, 2005).
Il viraggio fondamentale nella comprensione delle condotte autolesive è avvenuto negli ultimi dieci anni grazie ad un fiorente numero di ricerche, i cui risultati hanno permesso di riscontrare come l’ANS non è associata soltanto alla patologia borderline, ma è ravvisabile sia in pazienti che presentano una varietà di diagnosi sia in coloro ai quali non è stata fatta alcuna diagnosi clinica (Nock, 2010). Pertanto, l’impostazione nosografica del DSM-IV, secondo cui il comportamento autolesivo è inquadrato solo come uno dei criteri diagnostici del disturbo borderline di personalità, risulterebbe riduttiva e fuorviante non rispecchiando compiutamente la realtà clinica. Inoltre, tale criterio racchiude in sé sia la presenza di ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari sia i comportamenti di automutilazione. Ciò potrebbe creare, in ambito clinico, confusione rispetto alla capacità di individuare e distinguere queste due dimensioni . 
In questo contesto, proprio a partire dalla proposta di inquadrare l’autolesività non suicidaria come entità clinica a sé stante (Muehlenkamp, 2005; Shaffer e Jacobson, 2009), il Nonsuicidal Self-Injury (NSSI), è stata inserita nell’ultima edizione del DSM-5 (APA, 2013) e collocata all’interno della III Sezione quale condizione che necessita di studi ulteriori per comprovare la sua validità. Pertanto, il NSSI attualmente non è stato incluso tra le diagnosi ufficiali di disturbo mentale. Tuttavia tale proposta solleva specifiche riflessioni concernenti la sua possibile validità diagnostica ancora poco chiara. Da una parte, una diagnosi autonoma per l’autolesività non suicidaria è incentivata dai possibili benefici clinici che ne possono derivare, tra cui una migliore comprensione, gestione e trattamento delle condotte autolesive. Wilkinson e Goodyer (2011) hanno sottolineato che, oltre al beneficio clinico, una diagnosi a sé stante potrebbe migliorare la comunicazione tra professionisti e pazienti e implementare la ricerca sulla natura e sugli outcome del comportamento autolesivo. Dall’altra parte, alcune debolezze spiegano, sotto alcuni profili, la non ufficializzazione della diagnosi e la necessità di studi più approfonditi. Innanzitutto, la letteratura dalla quale si è attinto per la costruzione dei diversi criteri del NSSI è limitata prevalentemente a campioni di adolescenti e giovani adulti, mentre pochi studi sono stati condotti sulla popolazione adulta. La diagnosi potrebbe avere una maggiore validità tra i giovani rispetto ai soggetti adulti (Kapur, Cooper, O’Connor e Hawton, 2013). Inoltre, come sottolineato da De Leo (2011), adottare un’etichetta diagnostica specifica potrebbe portare a stigmatizzare inutilmente un largo numero di giovani. Questo rischio va attentamente valutato in considerazione del fatto che il comportamento autolesivo tende a cessare in età più avanzata o può manifestarsi come un comportamento occasionale di natura transitoria (Moran, Coffey, Romaniuk, Olsson, Borschmann, Carlin e Patton, 2011). Infine, un argomento assai controverso ruota intorno alla scelta di adottare il prefisso “ non suicidal”; il suo utilizzo metterebbe a tacere, imprudentemente, la possibile associazione tra condotte autolesive e comportamento suicidario (Andover , Morris, Wren e Bruzzese, 2012). Anche se il dibattito sulla natura del rapporto intercorrente tra autolesionismo e suicidio è ancora particolarmente acceso, da più parti è stato messo in luce come il NSSI sia uno dei maggiori fattori di rischio per un successivo tentativo di suicidio (Andover et al., 2012). Una separazione netta tra i due fenomeni potrebbe, dunque, non rispecchiare completamente la realtà clinica. Uno dei pericoli in cui potrebbero incorrere i professionisti della salute mentale, quindi, potrebbe essere quello di dare meno priorità a casi di NSSI, con la conseguenza di erogare trattamenti non adeguati o non pertinenti ai casi in esame (Kapur et al., 2013). Molte domande riguardanti la valutazione del rischio per il NSSI e per il comportamento suicidario rimangono senza risposta e la loro inclusione nel DSM-5 sicuramente stimolerà ed incrementerà la ricerca futura su questi temi.
I lavori presentati in questo numero toccano le tematiche illustrate senza avere, ovviamente, alcuna pretesa di esaustività, considerando la complessità e l’articolazione dell’argomento trattato.
Nello specifico il numero si apre con un articolo di ricerca di Cerutti, Spensieri e Valastro che esplora le caratteristiche del comportamento autolesivo in preadolescenza. I risultati ottenuti si aggiungono a quell’esiguo numero di contributi empirici che hanno indagato la relazione tra ANS e attaccamento e mettono in evidenza come i soggetti che si autoferiscono riportano una scarsa percezione della qualità di attaccamento ai genitori e ai pari e un maggior numero di esperienze stressanti rispetto a quelli che non si autoferiscono.
Il complesso rapporto intercorrente tra condotte autolesive e suicidarie viene approfondito e indagato nell’importante lavoro di ricerca presentato da Klonsky, May e Glenn su quattro diversi campioni. I risultati emersi sottolineano come l’ANS risulti essere una variabile di rischio per il suicidio più elevata rispetto a quella intercorrente tra suicidio e altri fattori, come la depressione, l’ansia, l’impulsività, e seconda soltanto alla presenza di ideazione suicidaria.
Il lavoro di Madeddu, Di Pierro, Sarno e Di Mattei affronta alcuni dei temi più controversi che hanno caratterizzano il dibattito sull’ANS nella prospettiva di fornire un approfondimento utile per la conoscenza di tale fenomeno. Sicuramente di interesse è la presentazione degli studi italiani e il confronto tra i diversi risultati ottenuti che sottolineano l’importanza, a livello clinico, di riconoscere e differenziare il fenomeno in sé alla luce di caratteristiche specifiche.
Segue il lavoro di Valastro, Cerutti e Flotta che analizza la relazione tra migrazione e condotte autolesive in minori stranieri non accompagnati. Si tratta di un tema particolarmente complesso che necessita attenzione poiché sottolinea come, per molti adolescenti che hanno vissuto esperienze traumatiche, il comportamento di ANS può essere utilizzato come strategia preferenziale per alleviare intensi affetti negativi e stati di eccitazione emotiva.
Il numero si conclude con un lavoro di rassegna teorica di Gargiulo e Margherita che si concentra sull’importanza di valutare il ruolo svolto dal genere nello studio dei comportamenti autolesivi in adolescenza e considera gli attacchi al corpo come modalità tipica del femminile, avanzando l’ipotesi che alcune dinamiche fallimentari nei processi di costruzione dell’identità di genere possano essere considerate come possibile strumento di lettura delle condotte autolesive.
I contributi presentati dimostrano la complessità del tema affrontato e sollecitano, comunque, la necessità di una maggiore attenzione verso un fenomeno di interesse clinico e sociale che in Italia non è ancora stato sufficientemente approfondito ma non per questo va trascurato.
■ Bibliografia
American Psychiatric Association (2013), Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Quinta Edizione (DSM-5). Tr. it. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2014.
Andover MS, Morris BW, Wren A, Bruzzese ME (2012), The co-occurrence of non-suicidal self-injury and attempted suicide among adolescents: distinguishing risk factors and psychosocial correlates. Child and Adolescent Psychiatry and Mental Health, 6, 11.
De Leo D (2011), DSM-V and the future of suicidology. Crisis, 32(5), 333-239.
Kapur N, Cooper J, O’Connor RC, Hawton K (2013), Non-suicidal self-injury v. attempted suicide: new diagnosis or false dichotomy. British Journal of Psychiatry, 202, 326-328.
Moran P, Coffey C, Romaniuk H, Olsson C, Borschmann R, Carlin JB, Patton GC (2011), The natural history of self-harm from adolescence to young adulthood: A population based cohort study. The Lancet, 379, 236-243.
Muehlenkamp JJ (2005), Self-injurious behavior as separate clinical syndrome. American Journal of Orthopsychiatry, 75, 324-333.
Nock MK (2010), Self-injury. Annual Review of Clinical Psychology, 6, 339-363.
Nock MK, Prinstein MJ (2005), Contextual features and behavioural functions of self-mutilation among adolescents. Journal of Abnormal Psychology, 114, 140-146.
Shaffer D, Jacobson C (2009), Proposal to the DSM-V Childhood Disorder and Mood Disorder Work Groups to Include Non Suicidal Self-injury (NSSI) as a DSM-V Disorder. Proposed Revisions: Disorders Usually First Diagnosed in Infancy, Childhood or Adolescence. DSM-5 Development. Arlington, VA: American Psychiatric Association.
Whitlock J, Lader W, Conterio K (2007), The Internet and Self-Injury: What Psychotherapists should know. Journal Of Clinical Psychology, 63(11), 1135-1143
Wilkinson P, Goodyer I (2011), Non-suicidal self-injury. European Child and Adolescent Psychiatry, 20(2), 103-108.