Introduzione

FILIPPO MURATORI
Dipartimento di Neuroscienze dello Sviluppo - IRCCS Stella Maris, Università di Pisa

Questo numero di Infanzia e Adolescenza esce in contemporanea con la pubblicazione della traduzione italiana della prima revisione della Classificazione Diagnostica della Salute Mentale e dei Disturbi di Sviluppo dell’Infanzia (d’ora in poi ed anche nei singoli lavori di questo numero indicata come CD:0-3R). Pertanto è possibile considerarlo come uno strumento aggiuntivo al testo della Classificazione ed in tale senso è stato concepito. Il numero infatti affronta alcuni temi che la CD:0-3R prevede sin d’ora come aree cliniche attorno a cui è necessario lavorare ulteriormente per il suo miglioramento e completamento.
In analogia con gli altri sistemi classificatori anche la CD:0-3 è un sistema vivo che necessita di essere continuamente aggiornato; in tal senso la CD:0-3R è il prodotto di due anni di lavoro di una Task Force ed è proposta come una “minor revision” cioè come un aggiornamento del tutto transitorio il cui principale scopo è quello di essere uno strumento più adeguato per arrivare a quella che sarà la vera seconda versione della CD:0-3.
Nello studio della prima infanzia la CD:0-3 ha costituito senza dubbio il primo strumento diagnostico che ha cercato di soddisfare, a livello internazionale, la necessità di disporre di un approccio che fosse complementare al DSM-IV ma anche in grado di colmare le sue inadeguatezze ad essere usato nelle età più precoci della vita dei bambini. Basti pensare all’importanza che ha a questa età la relazione tra il bambino e i suoi caregiver e alla necessità di introdurre un asse specifico dedicato alla sua valutazione come fattore patoplastico della psicopatologia infantile. Ma anche alla necessità di riformulare l’importante asse V, solitamente dedicato al funzionamento sociale dell’individuo, e che nel bambino deve essere riformulato in base alla rapidità dello sviluppo neuropsichico. Tuttavia nel corso degli anni la validità e l’attendibilità di questo sistema diagnostico sono rimasti i punti più critici che hanno guidato la revisione del sistema. Le innovazioni presenti nella CD:0-3R sono infatti la maggiore operazionalizzazione dei criteri diagnostici (che la avvicina al DSM-IV e con la quale essa ha inglobato una serie di lavori su alcune categorie diagnostiche che sono riportati in bibliografia) e l’introduzione di nuove rating scales, checklist, alberi decisionali e linee guida (che costringono il clinico a limitare la soggettività clinica nel processo valutativo).
I lavori qui presentati affrontano alcuni punti problematici della CD:0-3R a partire da alcune delle categorie individuate sull’Asse I ma mantenendo l’ottica multiassiale che caratterizza la Classificazione. Il lavoro di Maestro e collaboratori offre spunti di riflessione sui criteri per porre diagnosi di Depressione e sulla impossibilità di fermarsi ai criteri di Asse I per poter fare una diagnosi di depressione che sia effettivamente utile. Il lavoro di Tancredi e Muratori rappresenta una messa a punto dei problemi, attualmente presenti nel panorama internazionale, sulle caratteristiche dei disturbi dello spettro autistico nei primi tre anni di vita che hanno portato la CD:0-3R a limitare l’uso della diagnosi di Disturbo Multisistemico dello Sviluppo ai bambini di età inferiore ai 24 mesi. Il lavoro di Ammaniti e collaboratori esplora le significative modifiche che sono state apportate nell’ambito dei Disturbi del sonno per i quali sono stati recuperati i lavori di Sadeh ed Anders. Gli altri due lavori qui presenti si rivolgono a due aree cliniche, il disturbo della condotta e il pianto, che la CD:0-3R propone come bisognose di ulteriori studi per poter arrivare ad essere considerate come categorie diagnostiche autonome. Il lavoro di Thomas e Guskin rappresenta uno dei primi lavori dedicati allo spinoso problema relativo alla possibilità di fare diagnosi di Disturbo della Condotta nell’infanzia ed in età prescolare. È infatti noto che se da una parte lo scarso controllo degli impulsi, l’aggressività e l’oppositorietà sono tra i più frequenti motivi di consultazione nella clinica dell’infanzia, essi possono tuttavia confondersi con difficoltà del tutto fisiologiche a questa età. Infine il lavoro di Venuti ed Esposito esplora il pianto che raramente è considerato un elemento focale della espressività psicopatologica.  
Diversi dei lavori presentati propongono tentativi di correlazione tra la diagnosi categoriale multiassiale e la diagnosi dimensionale esplicitando così l’ipotesi che la diagnosi che deriva da informazioni multiple, oltre a permettere una diagnosi più precisa, consente anche di sviluppare con i genitori una comprensione condivisa della sintomatologia del bambino, di identificare il livello di sviluppo raggiunto dal bambino, di definire se il bambino è in una condizione di rischio, ed anche di potenziare una relazione genitore-bambino facilitante lo sviluppo. L’adozione di un corretto protocollo di valutazione in grado di consentire una diagnosi accurata deve infatti poter fornire le basi per l’intervento che va sempre pensato come un fattore esterno protettivo capace di impedire alle prime deviazioni di consolidarsi in pattern stabili e non adattivi di funzionamento. Dobbiamo cioè tenere presente che nel momento in cui di fronte ad un bambino piccolo ci si accinge a fare diagnosi nello stesso tempo entriamo nel campo della prevenzione e del trattamento. Dal punto di vista dello sviluppo infatti non si può essere interessati solo alla presentazione dei sintomi ma anche alla loro emergenza, che a sua volta apre la via alla comprensione del significato, consapevoli che è solo conoscendo le modalità di insorgenza e il significato psicopatologico dei sintomi che si può compiere una adeguata pianificazione dell’intervento. Per questo motivo il concetto di ‘working diagnosis’ è attualmente largamente condiviso in psichiatria infantile. La funzione di tale concetto è quello di limitare al massimo, di fronte a situazioni di rischio, l’atteggiamento ancora diffuso dell’attesa (‘wait and see’) a favore di una assunzione di responsabilità da parte del clinico che deve essere in grado di coniugare sin dall’inizio le proprie capacità diagnostiche con le proprie capacità terapeutiche, e di trasformare la diagnosi in una diagnosi come strumento di lavoro. Solo così sarà possibile evitare il rischio di trasformare la diagnosi in uno stigma.
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